
Perché bisogna proteggere gli squali
Gli squali hanno popolato la terra negli ultimi 400 milioni di anni, sono predatori che si trovano all’apice della catena alimentare marina e, in quanto tali, svolgono un ruolo fondamentale nel mantenimento e nella strutturazione degli ecosistemi marini. Controllano l’abbondanza e la distribuzione di tutti i livelli trofici della rete alimentare, eliminando gli individui più deboli e malati e fungendo da controllori del diffondersi di malattie. La loro diminuzione e/o la loro estinzione, legate ad un conseguente mancato controllo demografico e geografico da loro esercitato sulla catena alimentare, comporterebbero dei cambiamenti nella popolazione delle prede; tali cambiamenti possono essere trasmessi da un livello trofico all’altro, causando le cosiddette cascate trofiche che avrebbero ripercussioni ingenti sugli equilibri degli ecosistemi marini.
Immagine di copertina: Grande Squalo Bianco
Il falso mito dello squalo “mostro del mare”
Basti pensare che, ogni anno, in media, 8-10 persone perdono la vita a causa degli attacchi di squalo, 45 per l’esplosione di un tostapane, 450 perché cadono dal letto e 24.000 perché vengono colpite da un fulmine. Nonostante tutto, molte specie di squali sono oggi a rischio di estinzione a causa delle attività antropiche sempre più invasive, dei loro lenti tassi di crescita, della loro bassa fecondità (in media partoriscono 10 piccoli l’anno) e di uno sviluppo tardivo della maturità sessuale (in media intorno ai 7 anni), oltre ad avere un tasso di mortalità naturale molto basso il quale indica che, oltre all’uomo, non hanno predatori naturali da cui difendersi: tutte queste caratteristiche si traducono in un turnover della biomassa che procede con tassi estremamente lenti, rendendo gli squali e le loro popolazioni vulnerabili agli sforzi di pesca eccessivi ma anche all’inquinamento marino e alla distruzione degli habitat.
Tra le specie più note a rischio di estinzione ricordiamo il grande squalo bianco, lo smeriglio, il mako e la verdesca, inseriti rispettivamente nella red list della IUCN (International Iunion for Conservation of Nature) come “vulnerabile”, “vulnerabile”, “endangered” e “critically endangered”. Negli ultimi anni le normative e la loro attuazione per ridurre e vietare la pesca degli squali sono risultate scarse e la richiesta di carne è aumentata notevolmente.
L’essere umano è il vero mostro
La colpa di questa strage è in gran parte legata alla proliferazione della pratica illegale dello shark finning che, causando la morte di milioni di squali l’anno, consiste nel recidere le pinne e gettare gli squali ancora vivi in mare agonizzanti, senza dichiararne la cattura una volta tornati in porto per evitare di superare le quote di pesca consentite. Tutto questo avviene per rispondere alla crescente domanda di zuppa di pinne di squalo (Sharkfin soup), considerata una prelibatezza in varie zone dell’Asia al pari del tartufo e del caviale: infatti una ciotola di zuppa può arrivare a costare anche 70 euro! Lo shark finning, purtroppo, non è l’unica causa del loro declino: gli squali sono soggetti anche, e soprattutto, alla pesca industriale e sportiva.
Per quanto concerne la pesca industriale, già le popolazioni del Pacifico utilizzavano la pelle di squalo per costruire tamburi, i denti per realizzare armi e utensili e le carni come cibo. I prodotti derivati dagli squali sono infatti molteplici: le pinne e le carni vengono utilizzate a scopo alimentare, gli occhi per i trapianti di cornea di squalo su pazienti umani, l’olio di fegato per i medicinali e l’illuminazione, gli estratti di bile per i trattamenti all’acne umana, la pelle per ricavare cuoio e abrasivi, i denti per fare collane e arnesi di vario genere, le carcasse come concime e la cartilagine per realizzare integratori alimentari. Anche la pesca sportiva (soprattutto del mako) ha avuto e ha pesanti effetti sulle popolazioni di squali, dove la cattura di questi pesci ha come unico fine la vendita delle mascelle e dei denti come trofei. In entrambi i tipi di pesca, il vero problema risiede nella cattura di esemplari di piccole dimensioni che non hanno ancora raggiunto la maturità sessuale, precludendo agli squali la possibilità di riprodursi e di perpetuare la specie.
Non bisogna poi dimenticare il bycatch (la cattura accidentale degli squali ad opera dei pescatori), responsabile dell’uccisione di un terzo degli squali pescati su scala mondiale, oltre ai programmi per diminuire gli attacchi che utilizzano reti “anti-squalo” a largo di zone frequentate dai bagnanti. Anche la pesca a traina o con la draga può modificare il fondale e compromettere flora e fauna e, molti pesci, possono restare spesso intrappolati nelle reti abbandonate dai pescatori o negli involucri di plastica gettati in mare.
Esemplare di Squalo Seta
I cambiamenti climatici e gli effetti sugli squali
In ultimo, ma non per importanza, i mutamenti degli habitat possono disturbare gli equilibri degli squali e interferire con la loro abbondanza e distribuzione. Negli habitat di acqua dolce, ad esempio, la costruzione di dighe, di aree di irrigazione e il disboscamento hanno effetti che si ripercuotono sugli squali che vivono nei fiumi, negli estuari e in mare aperto: i sedimenti trasportati dalle acque dolci possono intorbidire le acque e soffocare scogliere e alghe, favorendo l’invasione di piante e animali nocivi in grado di alterare l’habitat di determinate specie. Allo stesso modo, i cambiamenti climatici possono avere ripercussioni sul lungo periodo: le oscillazioni del livello e della temperatura delle acque, dell’andamento delle correnti, delle maree e dell’erosione costiera possono compromettere le interazioni tra specie all’interno di un ecosistema.
Infine, l’inquinamento, dovuto all’immissione nelle acque di inquinanti provenienti da scarichi fognari, da plastiche, composti chimici, pesticidi e metalli pesanti, ha effetti catastrofici e distruttivi sugli ecosistemi: in particolare i metalli pesanti si possono accumulare (bioaccumulo) negli squali attraverso la dieta, la respirazione e la cute e, in taluni casi (come nel caso del mercurio), possono essere di difficile escrezione e accumularsi lungo la catena alimentare (fenomeno chiamato “biomagnificazione”). Inutile dire quanto urgenti possano essere le misure di conservazione da promuovere e mettere in atto, affiancate da ricerche mirate allo studio della biologia di base e dell’ecologia di questi pesci.